Chitarre Gitane

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Chitarre Gitane

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Alcuni di voi saranno venuti, come me, a contatto con il jazz manouche grazie a un film di Lasse Hallström, regista svedese che oltre a un paio di candidature al premio Oscar ha il merito aver girato quasi tutti i videoclip dei mitici Abba.

Il film in questione è Chocolat, e ci interessa in particolare per il suo protagonista maschile, Johnny Depp (ovazione delle signorine lettrici) nei panni del leader degli zingari, di passaggio con la sua carovana per il paese in cui si svolge il film: Roux, un abile chitarrista.

Questo personaggio si ispira alla persona di Django Rheinhardt, musicista gitano, fondatore e fulcro del gypsy jazz, o jazz manouche per dirla alla francese.

Depp probabilmente conosceva bene il personaggio di Django, e ci si è facilmente immedesimato, per due ragioni: la prima è che il dongiovanni americano, a soli sedici anni, ha abbandonato gli studi (dove non spiccava certamente) e ha iniziato a vivere nella sua Chevrolet Impala del ’67 in maniera perfettamente gypsy; la seconda è che in gioventù suonava la chitarra e voleva a tutti i costi diventare un musicista professionista, sogno che ha concretizzato almeno in parte, aprendo con i suoi The Kids concerti per gruppi del calibro dei Talking Heads, B52s, Iggy Pop ed altri.

I suoi primi lavori nella recitazione (cui viene indirizzato da Nicolas Cage, che vede in lui un potenziale attore di successo) non sono altro che espedienti per finanziare la carriera nella musica, e vengono considerati alla stregua di quelli da muratore, benzinaio, meccanico o televenditore di penne…. Sappiamo com’è andata a finire. Certo è che per Johnny la musica è rimasta sempre un sogno nel cassetto e che in Chocolat gli è stata data l’opportunità di mostrare la sua dedizione allo strumento, facendogli suonare in prima persona brani di discreta difficoltà, appartenenti al repertorio di Django (Minor Swing e Caravan) e del bluesman americano di inizi ‘900 Robert Johnson (They’re red hot).

Ma chi è questo Django di cui stiamo parlando? Arriviamo al dunque.

Jean Rheinhardt, zingaro di etnia sinti, vide la luce a Liverchies, in Belgio, nel 1910, durante una sosta della carovana dei suoi genitori. Trascorse i primi anni di vita nella periferia parigina, dove, al pari dei suoi numerosissimi “cugini”, si guardò bene dal frequentare alcun tipo di scuola; tuttavia, ebbe modo di imparare , rigorosamente ad orecchio, a suonare un banjo che gli era stato donato (o forse aveva rubato) all’età di dodici anni.

Avendo molto tempo a disposizione, ben presto Django divenne un ottimo strumentista e iniziò a guadagnarsi da vivere suonando dal vivo per il bal musette, uno stile di musica e di danza caratteristico della Parigi di inizi ‘900, che fornì all’artista una fonte da cui trarre ispirazione per le sue future creazioni.

Proprio in quel periodo avvenne un incidente clamoroso, che mise Django alle strette: la sua roulotte si incendiò e lui riportò gravi ustioni, perdendo l’uso di mignolo e anulare della mano sinistra (fondamentali per un chitarrista), che rimasero paralizzati.

Fu lì che emersero, a parer mio, il vero talento di Django, e la sua personalità estremamente presuntuosa ma energica ed ottimista: egli mise a punto una tecnica originalissima che prescindeva dall’uso delle dita menomate: utilizzava solamente indice e medio nell’esecuzione dei soli e cercava delle forme particolari per gli accordi, tipicamente ricchi di seste, settime e none.

La collaborazione più fruttuosa fu quella con il violinista Stéphane Grappelli, con il quale formò il celebre quintetto a corde Hot Club de France, che divenne a metà degli anni Trenta il complessino di jazz più famoso in Europa. Grappelli, il quale si era formato in ambienti ben diversi ed aveva un carattere raffinato, preciso e parsimonioso, costituiva una sorta di angelo custode per Django, il quale non voleva (né poteva, visto il suo totale analfabetismo) curarsi della parte contrattualistica, e non era in grado di attribuire al danaro, che sperperava selvaggiamente, il giusto peso.

Il musicista gitano aveva infatti un debole per il gioco e per gli azzardi in generale, e aveva intorno a sé una serie innumerevole di parenti o presunti tali pronti a favorire della sua ricchezza: si racconta che non ci fosse concerto in cui non presenziassero suoi “cugini”, e che non fosse raro trovarli sdraiati per terra nei suoi appartamenti, i quali si trasformavano puntualmente in accampamenti zingareschi.

L’Hot Club de France riscosse notevole successo in tutta Europa, e i suoi dischi vendettero bene, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che preoccupò sensibilmente il nostro Django, che lasciò Grappelli a Londra e se ne tornò a Parigi in fretta e furia, cercando casa presso i rifugi antiaerei.

La separazione dallo scrupoloso violinista non fermò l’ascesa di Django, che continuò la sua carriera organizzando gruppi sempre diversi e jam session in giro per la città: erano ormai gli anni 40, e anche il grosso pubblico francese aveva scoperto il jazz, o lo swing, come si diceva all’epoca. Ben presto Django ebbe la possibilità di affittare un lussuoso appartamento negli Champs-Élysées e di metter su famiglia.

Con la liberazione di Parigi si aprirono per Django le porte dell’America, dove si aspettava di trovare un altrettanto smisurato riconoscimento. Non fu così: anzi, quando, nel novembre del 1946, andò negli States per suonare con Duke Ellington, e come suo uso non si portò nemmeno la chitarra, si rese amaramente conto che il suo nome non figurava neanche nel cartellone dello spettacolo, e che i liutai non facevano la coda per regalargli uno strumento.

L’impresario di Ellington infatti, informato sulla imprevedibilità del personaggio, aveva preferito non rischiare, e lo stesso Ellington aveva già annunciato la assenza del chitarrista, che si era presentato come suo solito in ritardo. Django suonò comunque con la band ma non riscosse il successo sperato. Alcuni sostengono che non si fosse ancora abituato alla chitarra elettrica, da lui recentemente adottata.

Ma ciò che lo sorprese di più fu l’ascolto nei nuovi musicisti bop emergenti, che lo affascinarono e spaventarono al contempo (“è il Jazz del 1950”, disse). Quando tornò in Francia la sua attività si fece sempre più sporadica e presto si stabilì in provincia, dedicandosi prevalentemente alla pesca. Lamentava continui mal di testa e le dita, già menomate, non gli obbedivano più. Si spense nel 1953, dopo essersi rifiutato di vedere un medico per paura delle iniezioni.

Fu sicuramente un compositore talentuoso, avulso dalla cultura del blues e dai suoi giri armonici, ma completamente a suo agio nel suo universo a sé stante . Fu pertanto un fenomeno isolato e originale , assolutamente innovativo nel contesto europeo.

Non si dimenticano naturalmente le sue doti di strumentista: i suoi attacchi violenti, il vibrato e quell’innato senso del tempo, che manteneva anche durante soli di una certa complessità.

Amava improvvisare sugli arpeggi dell’armonia sottostante, che arricchiva con rapidi cromatismi e con quel caratteristico vibrato di cui abbiamo già parlato.

Le incisioni migliori sono quelle relative al primo periodo, con Grappelli al violino: Minor Swing, Sweet Georgia Brown, Nuages su tutte. Notevole anche Honeysuckle rose, registrata nel 1937 con Coleman Hawkins. Naturalmente potete consultare il web per una discografia dettagliata.

La chitarra di Django è stata ultimamente riscoperta ed è infatti presente in numerosi spot (mi vengono in mente Renault Scènic e Latte Perugina), film (I Cento Passi), e videogiochi (Mafia: The City of Lost Heaven). Tra i musicisti gypsy contemporanei che seguono, pur non potendo eguagliarlo, il genio di Django, ricordiamo Romane, Bireli Lagrene, Stochelo Rosenberg, Andreas Öberg e Frank Vignola (che potete vedere all’opera, in duo, qui) e il nostrano Paolo Pilo, autore di numerosi video didattici su Accordo.it , da cui ci aspettiamo presto un libro sulla musica manouche.

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